Arte a Milano: Ernesto Terlizzi presenta a cura di Antonello Tolve: APOLOGIA DELLA SUPERFICIE – testo in catalogo anche di Francesco Tadini

Inaugurazione 29 marzo 2014 ore 18.30- mappa Spazio Tadini

Dal 29 marzo al 18 aprile 2014

La mostra è composta da 30 carte tutte realizzate nel corso del 2013. In questi particolari fogli, l’autore, pur spaziando attraverso discipline e materie diverse, conferma la sua precisa riconoscibilità grazie al costante utilizzo del suo segno grafico contaminato nei vari risvolti della sua lunga ricerca. Un costante rinnovamento grazie a intelligenti espedienti immaginativi, fenditure, brecce e segni sempre tesi a coniugare, il manuale e il mentale, la pratica dell’arte e la teoria ad essa dedicata, in un processo di destrutturazione dell’immagine carico di rimandi ed allusioni.  Nei testi che accompagnano il catalogo Melina Scalise, Francesco Tadini e Antonello Tolve così scrivono: “…Terlizzi arriva a Spazio Tadini con una sua personale in questo luogo d’arte e cultura dedicato al maestro Emilio Tadini di cui conserva stima e ricordi. Ad ospitare la carte di Terlizzi, le pareti dello studio di Tadini, per riallacciare un dialogo mai interrotto come solo l’arte sa fare. I suoi lavori sono il racconto di un corpo, di un viaggio… Frammenti di quei paesaggi visibili a occhio nudo si ritrovano, staccati dalla prospettiva naturale, e collocati nelle opere di Terlizzi… Un dosatore perfetto del bianco e del nero e di tutte le sfumature del grigio… affascinato dalla semplicità e dall’essenzialità” (Melina Scalise)

“Essere apparentemente lieti mentre l’animo brucia ferocemente e, mentre la storia divora gli umani con le stesse fauci e la violenza di sempre, affidare a forme profughe – non certo solo object trouvé – il verbo futuro di ogni racconto possibile. Questo sembra essere il progetto radicale di Ernesto Terlizzi. E delle sue rudi eleganze in guisa di continuità iper raffinate tra disegno, pittura e brandelli vari. “La vera armonia sta nella disarmonia”, chiosa Ernesto nella video intervista sopracitata. E forse, con garbo e coerenza progettuale proprie di ogni grande artista, a conseguenza della conseguenza delle premesse gettate quarant’anni fa, la disarmonia di queste forme profughe è vero antidoto all’inquinamento oftalmico corrente. Mi sveglierò ancora di notte per vedere con desiderio queste trenta carte perfette di Ernesto, che saranno inondate dalla luce che meritano” (Francesco Tadini)

Irrimediabilmente legato ad un tessuto fragile e irrequieto che fa i conti con la vita, Terlizzi esercita non a caso sulla superficie una spinta morbida e morbosa che volge verso la crisi del riferimento tra la realtà e il linguaggio della pittura per costruire, così, uno spazio concreto, bidimensionale, mentale. Ogni sua opera recente, comprese queste nuove carte che ascoltano (accolgono e rappresentano)il silenzio del mare, rappresenta dunque un gioco linguistico, un processo di destrutturazione della realtà per erigere un discorso del linguaggio sul linguaggio mediante una modalità sinonimica attraverso la quale generare «l’attivazione di fasce potenti di equivalenza e di identità a livello profondo, le quali compromettono le articolazioni differenziali e oppositive delle strutture semiche di superficie»” (Antonello Tolve)

Catalogo in galleria

BREVE BIOGRAFIA  ERNESTO TERLIZZI

Ernesto Terlizzi nasce ad Angri (Sa) dove vive e lavora. Dal 1965, dopo gli studi presso l’Accademia delle Belle Arti di Napoli, è presente nel panorama artistico nazionale e internazionale

con mostre di gruppo, premi e personali. Sue opere sono inserite in numerose collezioni pubbliche permanenti tra cui: Museo d’Arte Moderna, Durazzo Albania; Museo d’Arte Contemporanea, Ripe San Ginesio, Macerata; Consolato Venezuelano di Napoli; Pinacoteca e Musei Comunali,

Macerata; FRAC Prima collezione permanente, Baronissi (Sa); Pinacoteca Comunale, Termoli; Museo delle generazioni italiane del 900, Pieve di Cento, Bologna; CAM Art Museum Contemporary, Casoria (Na); Museo d’Arte Contemporanea, Gazoldo degli Ippoliti, Mantova; MUMI Fondazione Michetti, Francavilla al Mare (Ch).

TESTO INTEGRALE ANTONELLO TOLVE

Apologia della superficie

di Antonello Tolve

Gli oggetti formano la sostanza del mondo

Ludwig Wittgenstein

Ci sono artisti che, con esercizio (l’arte è esercizio, costante verifica, determinazione, pratica quotidiana ha suggerito, nel 1994, Alan Charlton)[1], costruiscono ambienti vivaci, tragitti luminosi, brillanti destini progettuali, passionali trame formali e personali visioni future sul mondo dell’arte. Ci sono artisti che, nel tempo, disegnano una rotta, un filo sottile. Artisti che seguono, per tutta la vita, un progetto di ricerca, un programma estetico volto a farsi, negli anni, sempre più chiaro, evidente, elegante, determinante. A questa categoria – una categoria che non dimentica mai il nucleo e il grumo originario della riflessione, che non disperde mai il territorio intimo del lavoro pur ampliando il proprio orizzonte in diverse direzioni, in un processo di attivazione del pensiero – appartiene Ernesto Terlizzi (Angri, 1949), pittore la cui pittura, «tra la fisicità irriducibile della materia e la misura costruttiva del disegno»[2] suggerisce puntualmente Stefania Zuliani, spinge lo sguardo al di della natura per mostrare un panorama iconografico che elogia via via la leggerezza, la sintesi, la pulizia formale. E non mancano, poi, in questo elogio, i giochi delle trasparenze che «attirano lo sguardo in una seducente trappola policroma, facendolo quasi scivolare nella precipitosa successione dei piani scaglionati, l’uno dietro l’altro, a scandire ritmicamente le cadenze»[3] del discorso.

Accanto ad una indagine irrequieta sui brani della realtà (di una natura artificializzata con lo scopo di creare un reale immaginario – il Paesaggio nero del 1977, l’Origine del 1978, il Bulbo del 1981, la Forma di natura del 1983 o le varie condizioni della Composizione organica del 1984 ne sono alcuni esempi) e ad un approccio artigianale necessario a consolidare, sulla superficie, una riflessione legata al silenzio della materia e della forma, Ernesto Terlizzi mostra, da tempo, un vocabolario la cui forza scommette sul rischio del gesto e sull’azzardo di una massa pittorica capace di suscitare impressioni inaspettate e altrettanto inaspettate manifestazioni poetiche.

Alla ricerca di un disegno culturale capace di scansare i fossi paludosi della verosimiglianza, la prospettiva estetica messa in campo da Terlizzi nell’arco degli ultimi decenni esprime difatti aperture, brecce, fenditure critiche mediante una serie di progetti che lasciano confluire, all’interno di uno stesso ambiente operativo, intelligenti espedienti immaginifici volti a coniugare il manuale e il mentale, la pratica dell’arte e la teoria ad essa dedicata. Dal collage alla stampa a rilievo, dal disegno alla pittura, dalla scultura all’installazione, il suo lavoro procede con un fondamentale eclettismo stilistico e grammaticale che accentua un circuito virtuoso segnato dalla presenza di collaudi, sforzi, tentativi, prove di volo. Da volontarie (e anche involontarie direi) analisi logiche che depurano la mente dall’inquinamento oftalmico d’oggi per costruire visioni preziose, contaminate dal solo gesto del pensiero.

Dopo un primo periodo legato alla stagione informale, ad una materia raggrinzita e ripulita d’orpelli barocchi, Terlizzi delinea un vocabolario espressivo in cui le variazioni di tono, lo studio di luci ed ombre, l’illusione di spazi naturalistici e la ricchezza della tecnica (sempre ricercata con cura) costruiscono una dimensione fantastica che trasfigura il mondo per ampliarlo all’interno di vortici transdecorativi, di fregi, di guarniture, di flussi e flutti coinvolgenti. Si tratta di una verifica costante di alcuni luoghi e di alcune occasioni del tempo che l’artista utilizza (e stilizza) per scavare, con cura, nei prati della memoria e concepire, così, un’enorme cassa di risonanza materica che sposta la scrittura delle cose verso un differente modo di fare e di pensare. Dal décollage (e dagli affiches lacerées) di Rotella al Combine painting di Rauschenberg, dalla smagliatura (e dalla bruciatura) di Burri al silenzio di Fontana, per giungere, man mano, ad alcune posizioni legate ai nomi di Achille Perilli, di Barisani, di Del Pezzo, di Tatafiore, di Gianni Pisani[4], il suo orizzonte si nutre di materie della mente, di forme delicate e impure, erotiche e croccanti. Forme che lasciano intravedere una dolcezza di fondo che pare guardare alla stagione dell’Art Nouveau, al Sezessionstil in particolare. Con un gusto e una minuzia esclusiva, Terlizzi propone infatti dissolvimenti, lievi tracce di cose, corpi gioiosi ed erotici che vibrano sulla superficie adoprata per stuzzicare lo sguardo e condividere (con lo spettatore) le tracce mezzo cancellate di un sogno lontano.

Dai vari filamenti sinuosi che caratterizzano molta produzione degli anni Settanta alle geometrie degli anni Ottanta – Collage (1985), Struttura pompeiana (1986), Notturno (1987), Materie con sacco oro (1988) e i vari Senza titolo (1988) ne sono alcune – in cui si intravede il segno di Burri, dagli sfiancamenti materici degli anni Novanta alle varie assenze e abrasioni degli ultimi decenni, Terlizzi sente l’esigenza (e fa avvertire l’esigenza anche al suo pubblico) di spingersi in un ambiente analitico, in uno spazio che fa della semanalisi (la semanalisi «formalise pour décostruire»)[5] il centro di un discorso teso ad accogliere lacerazioni leggere e avvincenti, riduzioni necessarie a elaborare un discorso – quello specifico della pittura – segnato essenzialmente dal mondo della superficie, dei segni (che «si presentano come tratti semici elementari») e delle figure suggerirebbe Filiberto Menna da una angolazione più strettamente semiotica, ovvero di «unità elementari prive di significato […] il cui valore è dato per differenze posizionali e opposizionali all’interno di un contesto sistemico»[6].

Irrimediabilmente legato ad un tessuto fragile e irrequieto che fa i conti con la vita, Terlizzi esercita non a caso sulla superficie una spinta morbida e morbosa che volge verso la crisi del riferimento tra la realtà e il linguaggio della pittura per costruire, così, uno spazio concreto, bidimensionale, mentale. Fino ad approdare (La geografia degli approdi è, non a caso, il titolo di una sua mostra recente),  all’astrazione. Ad una astrazione che è, nel contempo, creazione di un segno astratto e metodo logico attraverso il quale ottenere concetti ricavati dalla conoscenza sensibile di cose e di oggetti svuotati del loro carattere temporospaziale.

Ogni sua opera recente, comprese queste nuove carte che ascoltano (accolgono e rappresentano) il silenzio del mare, rappresenta dunque un gioco linguistico, un processo di destrutturazione della realtà per erigere un discorso del linguaggio sul linguaggio mediante una modalità sinonimica attraverso la quale generare «l’attivazione di fasce potenti di equivalenza e di identità a livello profondo, le quali compromettono le articolazioni differenziali e oppositive delle strutture semiche di superficie»[7].

Lotta con le onde, Arrampicamento tra le acque, Sogni sommersi, Contenitore di memorie, Emersione, Nero di luna, Frammenti nell’acqua o La casa dell’infanzia che ricorda un romantico paesaggio veneziano. Sono, assieme ad un unico grande lavoro del 2014 (formato da 6 carte che costituiscono un manto atmosferico ancora una volta legato alla fluidità e alla pungente morbidezza di residui lontani), soltanto alcune delle immagini proposte dall’artista – tutte realizzate con carta thailandese kozo martellata – per rivisitare la natura, oggi, mediante angolazioni differenti, efficaci interpunzioni estetiche, sensuali sfumature, tonalità liquide cristallizzate in segni, in disegni, in ammiccanti annotazioni tonali.

È un nuovo mondo dunque, un mondo che – dopo il mondo sporgente e spigoloso della vita quotidiana al quale l’artista ha dedicato una serie di carte pregiate – si immerge, ora, nell’acqua dell’autobiografia, in un liquido amniotico che genera una sorta di manifesto della mente, in un paese fatto di sbiaditi fantasmi, di creature lontane, di storie silenziose, di fiabe senza finale che si rincorrono tra loro per disegnare un epilogo originario, una nebulosa di segni da decifrare con cura, un ambiente in cui le acque sommergono e paradossalmente illuminano la scena.


[1]    Cfr. P. T. Murphy, Conversation pieces: Alan Charlton, Thomas Chimes, Hamish Fulton, Bill Walton, Richard Torchia, Richard Wentworth, Institute of Contemporary Art, University of Pennsylvania 1994.

[2]    S. Zuliani, Terlizzi. Il piacere di moltiplicare gli elementi, in «Il Mattino», 3 aprile 1996, p. 21.

[3]    V. Corbi, Per Ernesto Terlizzi, in Ernesto Terlizzi. Nel battito della natura, Edizioni Asir, Pontecagnano (SA) 1989, p. 83.

[4]    Per un ampio sguardo sul lavoro di Terlizzi si veda almeno il testo di M. Bignardi, L’urgenza della pittura, in Ernesto Terlizzi. Nel battito della natura, cit., pp. 7-13.

[5]    J. Kristeva, Semiotiké. Recherches pour une sémanalyse, Seuil, Paris 1969, p. 22.

[6]    F. Menna, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975, p. 14.

[7]    S. Agosti, Cinque analisi, Feltrinelli, Milano 1982, p. 169.

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